Distanze tra costruzioni, il punto sulle norme e la giurisprudenza: il Report ANCE

Il tema delle distanze fra le costruzioni è regolato principalmente dall’art. 873 del codice civile e dall’art. 9 del DM 1444/1968 che impongono distanze e dimensioni precise

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Il tema delle distanze tra costruzioni è regolato principalmente dall’art. 873 del codice civile e dall’art. 9 del DM 1444/1968 che impongono rispettivamente: una distanza non minore di 3 metri, fra costruzioni su fondi finitimi, qualora non unite o aderenti, fermo restando che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore. L’art. 873 c.c. è finalizzato a tutelare gli interessi dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione e rappresenta il limite ultimo ed inderogabile da rispettare nelle distanze fra edifici; una distanza minima assoluta di 10 metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, in tutte le zone omogenee del territorio comunale ad eccezione delle zone A (centro storico), nelle quali per gli interventi di risanamento e di ristrutturazione, le distanze tra costruzioni tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti fra i volumi edificati preesistenti (art. 9, comma 1, punto 1 e punto 2 DM 1444/1968).

Di cosa parliamo in questo articolo:

A chiusura del sistema delineato dal DM 1444/1968, l’art. 9, comma 3, ultimo periodo prevede che “ sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano-volumetriche”.

Le norme del DM 1444/1968, a differenza di quelle del Codice civile, sono finalizzate a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitati.

La giurisprudenza riconosce al DM 1444/1968 efficacia di legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies Legge 1150/1942 (c.d. legge urbanistica), cosicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, altezza e distanza tra i fabbricati cui i comuni sono tenuti a conformarsi nella redazione o revisione dei loro strumenti urbanistici, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati (tra le tante Cassazione civile, sezioni unite, 07/07/2011, n. 14953).

Il rispetto del limite di distanza di 10 metri tra fabbricati, proprio a causa della diretta operatività tra i privati, rappresenta uno dei principali problemi che si frappongono alla realizzazione degli interventi di rigenerazione e in particolare di “sostituzione” dell’edificato. Questi interventi si inseriscono generalmente in un contesto urbano consolidato che rende difficile il rispetto di limiti di distanza – così come di altezza e densità edilizia – soprattutto in presenza di aumenti di volumetria.

L’art. 2-bis del Dpr 380/2001 – inserito dalla Legge 98/2013 di conversione del DL 69/2013 e intitolato “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati” – ha cercato di risolvere la problematica, prevedendo la possibilità per le Regioni di introdurre deroghe alle distanze e in generale agli standard urbanistici ed edilizi del DM 1444/1968. Alcune disposizioni regionali (Veneto, Marche, Liguria) sono state, però, censurate dalla Corte Costituzionale che ha interpretato l’art. 2-bis in modo molto restrittivo, ritenendo le deroghe applicabili solo se giustificate dall’esigenza di soddisfare interessi urbanistici che si concretizzino in “strumenti funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio”.

Da ciò emergono i limiti dell’art. 2-bis e la necessità di andare oltre l’intervento derogatorio, con l’attivazione di un percorso di riforma del DM 1444/1968 la cui impostazione di carattere “limitativo” si presenta oramai evidentemente inadeguata rispetto alle esigenze di regolazione dello sviluppo urbano moderno.

Tralasciando le problematiche relative ai criteri di misurazione della distanza, si svolge di seguito una disamina delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza in relazione alle diverse ipotesi che possono verificarsi nella pratica con principale riferimento agli interventi sul patrimonio edilizio esistente.

I limiti delle distanze tra costruzioni trovano applicazione con riferimento alle nuove costruzioni, intendendosi per tali gli edifici o parti di essi “costruiti per la prima volta” e non già gli edifici preesistenti per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse (vedi Cons. Stato, 27 ottobre 2011, n. 5759). È quanto ha stabilito la giurisprudenza, evidenziando in particolare che l’art. 9, comma 2 del DM 1444/1968 non riguarda gli interventi sul patrimonio edilizio esistente e dunque gli immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione; in questi casi infatti l’applicazione del limite di 10 metri comporterebbe un arretramento dell’edificio rispetto all’allineamento degli altri fabbricati preesistenti con conseguente perdita coattiva di volume (una sorta di espropriazione del diritto di proprietà) e realizzazione di intercapedini, rientranze e spazi chiusi nocivi per l’igiene e la salubrità (Consiglio di Stato, sezione IV, 14 settembre 2017, n. 4337).

La giurisprudenza ha però puntualizzato che:

  • rientrano nella nozione di nuova costruzione anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell’entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione, modificano radicalmente l’immobile, rendendo l’opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (Cassazione civile, sez. II, 30/06/2017, n. 16268; TAR Campania, sez. II, 7 dicembre 2017, n. 5785; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30 novembre 2016, n. 2274);

  • la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione;

  • pur consentendo l’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo preesistente (cfr. TAR Emilia Romagna Bologna, Sez. II, 25 febbraio 2010 n. 1613).

Al riguardo è importante richiamare l’art. 14 del D.lgs. 102/2014 che prevede, nel caso di interventi di riqualificazione energetica di edifici esistenti che comportino maggiori spessori delle murature esterne o degli elementi di chiusura superiori o inferiori, la possibilità di derogare alle norme statali, regionali o regolamentari sulle distanze minime tra edifici ovvero dai confini di proprietà o dal nastro stradale, fatte salve disposizioni del codice civile.

La deroga è subordinata al raggiungimento di una riduzione di almeno il 10% dei limiti di trasmittanza previsti dal D.lgs. 192/2005 ed è accordata, in relazione alle distanze tra edifici, nella misura massima di 25 cm per il maggiore spessore delle pareti verticali esterne, nonché con riferimento ai limiti di altezza, nella misura massima di 30 cm per il maggior spessore degli elementi di copertura.

Si evidenzia inoltre che alcune normative regionali – fra cui le più recenti sono quelle del Lazio e dell’Emilia Romagna – consentono, in attuazione dell’art. 2-bis del Dpr 380/2001, alcuni “margini di manovra” negli interventi di demolizione e ricostruzione con incrementi volumetrici.

In particolare, la LR Lazio 7/2017 in tema di distanze stabilisce che: “Per la ricostruzione degli edifici demoliti è consentito il mantenimento delle distanze preesistenti con l’eventuale modifica delle stesse nel rispetto della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate, nonché la deroga, secondo quanto previsto dall’articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001, alle densità fondiarie di cui all’articolo 7 del D.M. n. 1444/1968 del Ministero dei lavori pubblici e alle altezze massime consentite dall’articolo 8 del medesimo D.M. n. 1444/1968. Tali deroghe sono consentite esclusivamente per la realizzazione delle premialità e degli incrementi previsti dalla presente legge” (art. 8, comma 3).

L’art. 10 della LR Emilia Romagna 24/2017 stabilisce invece che:

  • In attuazione dell’articolo 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, gli edifici esistenti nel territorio urbanizzato che siano oggetto degli interventi di riuso e rigenerazione urbana individuati dall’articolo 7, comma 4, della presente legge ovvero di recupero funzionale, di accorpamento o di ogni altra trasformazione espressamente qualificata di interesse pubblico dalla disciplina statale e regionale vigente, possono essere demoliti e ricostruiti, all’interno dell’area di sedime o aumentando la distanza dagli edifici antistanti, anche in deroga ai limiti di cui all’articolo 9 del DM 1444/1968, fermo restando il rispetto delle norme del codice civile e della disciplina di tutela degli edifici di valore storico-architettonico, culturale e testimoniale di cui all’articolo 32, comma 7, della presente legge. In caso di demolizione di edifici costruiti in aderenza a quelli del vicino o con comunione del muro divisorio, la ricostruzione deve avvenire nel rispetto dei limiti di cui all’articolo 9 del DM 1444/1968, fatta salva l’ipotesi della fedele ricostruzione.

  • Gli eventuali incentivi volumetrici riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati con la soprelevazione dell’edificio originario, anche in deroga agli articoli 7, 8 e 9 del DM 1444/1968, nonché con ampliamento fuori sagoma dell’edificio originario laddove siano comunque rispettate le distanze minime tra fabbricati di cui all’articolo 9 del DM 1444/1968 o quelle dagli edifici antistanti preesistenti, se inferiori. Il medesimo principio trova applicazione per gli interventi di addensamento o sostituzione urbana previsti dal PUG in conformità alla presente legge.

  • Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 prevalgono sulle diverse previsioni sulla densità edilizia, sull’altezza degli edifici e sulle distanze tra fabbricati previste dagli strumenti di pianificazione urbanistica vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge.”La giurisprudenza ha più volte avuto modo di precisare che, ai fini dell’operatività della previsione del limite di 10 metri, è sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 novembre 2013, n. 5557; Cons. Stato, 9 ottobre 2012, n. 5253

  • Ugualmente è stato evidenziato più volte che l’obbligo di rispettare le distanze stabilite dall’art. 9 DM 1444/1968 sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture tra le due pareti frontistanti (Consiglio di Stato, sez. IV, 04/08/2016, n. 3522; Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 856; Cons. Stato, 11 giugno 2015, n. 2861; Cons. Stato, 22 gennaio 2013, nr. 354; Cons. Stato, 20 luglio 2011, n. 4374).

La giurisprudenza ha poi dichiarato illegittimo un articolo delle NTA di un PRG che impone il rispetto della distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate soltanto per i tratti di esse dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi, in quanto contrastante con le prescrizioni dell’art. 9, comma 1, n. 2 DM 1444/1968, il quale prescrive l’osservanza di tale distacco con riferimento all’intera estensione della parete; ne deriva che la disposizione regolamentare va disapplicata e sostituita con inserzione automatica della diversa previsione statale, direttamente applicabile nei rapporti tra privati (Cassazione civile, sez. II, 02/03/2018, n. 5017; Cassazione civile, sezioni unite, 07/07/2011, n. 14953).

Al riguardo, viene precisato che “l’art. 9 DM 1444/1968 è volto a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero, che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale: ne conseguirebbe la facoltà per i Comuni di permettere edificazioni incongrue, con profili orizzontali dentati a rientranze e sporgenze, in corrispondenza rispettivamente dei tratti finestrati e di quelli ciechi delle facciate. Ne consegue che assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontistante facciata e non già la reciproca posizione delle finestre in entrambe le superfici aperte” (Cassazione civile, sez. II, 02/03/2018, n. 5017).

Su questo tema la giurisprudenza ha evidenziato che:

  • l’art. 873 trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quella superiore, in quanto non soltanto le esigenze di tutelare l’assetto urbanistico e l’ambiente non vengono meno per l’esistenza di una scarpata tra un fondo e l’altro, ma permane anche la necessità di evitare intercapedini dannose (Cassazione, Sez. 2, 10 novembre 1998, n. 11280; Sez. 2, 5 dicembre 2007, n. 25393; Sez. 2, 15 luglio 2008, n. 19486; Sez. 2, 11 settembre 2013, n. 20850 che da rilievo alla distanze in sè delle costruzioni, a prescindere dal loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello dei fondi su cui insistono (cassazione, Sez. 2, 4 ottobre 2005, n. 19350).

  • l’art. 9, comma 1, n. 2, nel fissare una distanza minima assoluta più ampia di quella dettata dal codice civile presuppone che le pareti, di cui almeno una finestrata, siano antistanti e quindi fronteggiantisi: tale norma, pertanto, non è applicabile per la costruzione, o per la parte di essa, realizzata nel fondo inferiore che non superi il dislivello naturale dei fondi (Cassazione, sez. 2, 17 ottobre 1992, n. 11435, sez. 2, 25 giugno 2012, n. 10575). La giurisprudenza ha specificato che, ai fini dell’applicazione dell’art 41-quinquies Legge n. 1150/1942, non può tenersi conto delle costruzioni sottostanti il piano di campagna, “le quali nel caso di fondi a dislivello non possono considerarsi frontistanti”.

Nonostante il dettato normativo che impone il limite di distanza di 10 metri fra pareti finestrate, la giurisprudenza sembra propendere per l’applicazione di tale limite anche ad edifici antistanti le cui pareti siano prive di finestre (e quindi di vedute). Oltre a quanto specificato sopra in relazione agli edifici con pareti in parte finestrate, in parte no, in diverse pronunce si afferma che il divieto di costruire a distanza inferiore a 10 metri ha portata generale, astratta e inderogabile, da cui deriva l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili (cfr. TAR Campania, sez. II, 7 dicembre 2017, n. 5785; Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2012, n. 6489; Cons. Stato, sez. IV, 9 maggio 2011, nr. 2749; Cons. Stato., 5 dicembre 2005, n. 6909).

Con specifico riferimento alle zone A, la giurisprudenza ha evidenziato che per le distanze tra costruzioni in zona A, posto che il limite di distanza corrispondente a quella tra i volumi edificati preesistenti riguarda soltanto gli interventi di risanamento conservativo e di ristrutturazione, nel caso (eccezionale) di nuova costruzione anche nella suddetta zona si applica la distanza di 10 metri di cui all’art. 9, comma 1, punto 2), del DM 1444/1968 (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4337/2017; TAR Campania, sez. II, 7 dicembre 2017, n. 5785; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 gennaio 2003 n. 419; Consiglio di Stato, Sez. V, 19 marzo 1999 n. 280; TAR Liguria, Sez. I, 14 dicembre 2012 n. 1660).

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